Natura anonima
C’è da perdersi nelle pieghe di queste Prealpi meridionali. Colline su colline si sparpagliano tra il torrente Torre e la Malina. I versanti si ripiegano lungo le incisioni dei loro piccoli tributari come origami verdi di boschi che soltanto bracconieri, motocrossisti ed escursionisti amanti del selvatico percorrono ancora. Rigagnoli, torrentelli e cocuzzoli che non trovano un nome impresso sulla carta topografica. Attualmente resistono solo i toponimi che i cartografi dell’Istituto Geografico Militare avevano censito negli anni ’50 e riportato fedelmente in quelle “sacre” tavolette 1:25.000 che rappresentano uno scrigno di informazioni per i camminatori curiosi. Ma dei micro-toponimi non v’è più traccia. Nomignoli che certamente possedevano un tempo, quando tali anfratti e dolci pendii erano battuti palmo a palmo, lavorati e gestiti con cura maniacale. La fame e la miseria portavano a tale riguardo nei confronti del territorio. Appellativi che ormai conoscono solo gli anziani, e che stanno svanendo dal nostro mondo, dove d’altro canto sono inutilizzati. Soltanto a qualche escursionista potrebbero interessare. Magari sarebbe stato utile sapere dove si è smarrito, o come si chiama il cocuzzolo dal quale si può godere di un frammento di panorama sulle catene prealpine. Forse un domani, se l’uomo attualmente indaffarato in altre faccende, “ricolonizzerà” queste terre inselvatichite, reinventerà nuovi nomi per i piccoli corsi d’acqua, le cimette, i pianori. D’altronde se un attrezzo non serve viene messo da parte; più passa il tempo più se ne dimentica l’uso e, alla lunga, anche il nome. Ci troviamo così a camminare in luoghi che non parlano più la lingua dell’uomo, ma unicamente quella della natura, universale e priva di omonimie, che possiamo cercar di ascoltare e comprendere, almeno in parte. Bisogna “farci l’orecchio”, saper leggere l’arcaico idioma attraverso segni, suoni, forme, odori. È un po’ come carpire il senso di un discorso ascoltando un dialogo in una lingua della quale si conoscono poche parole. Il significato giunge, a fatica, ma ci resta il dubbio di aver interpretato male, di non averne colto il significato profondo. I “muti” Colli Orientali attraversati quest’oggi, risalendo valli silenziose ove risuonava il canto del tordo bottaccio e il manto trepidante delle corolle primaticce si stendeva dalle rive ai versanti boscosi, ci hanno intrattenuto con lunghi discorsi mentre curiosavamo nei loro appartati dintorni. Ci sussurravano sulla loro storia, sulla loro origine, la forma attuale, e conoscevano il loro destino. Qualche parola, qua e là è stata colta, capita. Il cammino non appariva solitario, ma accompagnato da nomi scanditi con precisione, da frasi logiche che alludevano a significati profondi. Insomma, era un bell’andare, un bel crescere nella conoscenza di una terra ora libera da vincoli produttivi, vocata all’espressione della sua indole selvaggia. Il contrasto con la parte meridionale delle colline è evidente. Usciti dai boschi e dai colli “senza nome” si giunge infine nella parte coltivata a viti e olivi. Qui ordinati filari e terrazzamenti ben curati, ciascuno con il suo nome, derivato dallo specifico vitigno che vi si alleva, con il codice progressivo scritto sui pali di testa, con le indicazioni scritte su specifiche tabelle informative, apparivano quali file di eserciti pronti alla guerra. Ebbene, avranno ognuno il proprio nome, questi filari, questi cocuzzoli, questi versanti, ma i luoghi “stranieri” testé attraversati sembravano più allegri e ciarlieri di tali schiere ordinate. A onor del vero ammettiamo che i boschi selvaggi, che ci hanno rigenerato nello spirito, non sono però in grado di produrre quel dolce nettare che sgorga dai filari ordinati della Cengle: il rubino Gamay.