PARTISTAGNO – 21 DICEMBRE 2020
La culla d’oro
Ma non è così…Il volo nuziale di una specie di effemerotteri ci appare quale danzante nuvoletta chiara nel mezzo del bosco. Una salamandra tenta di risalire un tratto di terra friabile sotto gli strati di marne e arenarie, forse per trovarsi un rifugio, o una compagna, o qualche insetto caduto in volo, magro banchetto. Una sua simile, invece, è appostata dietro una nodosa radice, a guardia del varco che collega i due versanti del monte. Le lamine fogliari del colchico si fanno largo tra le foglie morte di querce e aceri e si preparano alla nuova stagione vegetativa; a breve porteranno a maturazione quei frutti, che per molti mesi sono rimasti al riparo sotto la scura terra forestale, dove pullulano miriadi di collemboli, aracnidi, miriapodi e molluschi. Un ragno attende giorni più asciutti per sperare di catturare qualche preda nella sua tela, ricamata da goccioline di nebbia. La stessa nebbia che avvolge il bosco intero, sfumando l’intricata selva di fusti slanciati ad una distanza che si dimostra infinita: i tuoi occhi la vedono, la valutano e la misurano, ma, quando i tuoi passi si apprestano a raggiungerla, lei si allontana di pari distanza, e tu cammini, convinto di trovarla, ma non la raggiungi mai, la nebbia, non la tocchi, non ne fai parte, non è cosa tua, né mai lo sarà. Impalpabile e scialba, caro Pascoli, la tua nebbia per il bosco è vita, acqua servita a misura di batterio, di microrganismo che è, a tutti gli effetti, anima discreta del bosco. Lungo il sentiero che si insinua tra grosse ceppaie di castagno, secche e annerite, non c’è roccia che non presenti croste di licheni, dove minuscole alghe unicellulari stanno compiendo la fotosintesi, trasformando il carbonio “spento” in carbonio organico, “vivo”, e tutto grazie a quelle minuscole goccioline d’acqua. Non c’è tronco o ramo secco o masso che non sia ricoperto da verdissimi muschi, le cui minuscole foglioline sono in completa attività in questi giorni, brevi per noi, ma sufficientemente lunghi per loro. Il solstizio d’inverno coincide proprio con questa stagione, da noi umani erroneamente considerata inattiva, ma che, osservata con occhio attento, scopri essere piena di vitalità metabolica: le giornate inizieranno ad allungarsi e la natura deve trovarsi pronta. I germogli dei bucaneve annunciano già le imminenti prime fioriture, mentre le tenere primule stanno per allargare le loro foglie come fisarmoniche pronte ad emettere le loro note. La polmonaria sta accumulano amidi nei rizomi; energia che, associata a quella dei primi timidi raggi di sole, permetterà ai suoi fiori di sbocciare presto, attirando i pronubi in cerca di nettare, prima che nuove chiome oscurino il sottobosco.
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La nostra biglia blu è nel punto più vicino alla palla gialla, in perielio, eppure questa vicinanza è percepita da noi uomini come lontananza, perché l’astro è basso, e nei giorni del solstizio d’inverno si fa vedere per tempi limitati. Se poi subentra anche la nebbia, il dì sembra davvero troppo breve alla vita.
Camminando tra festoni di edera verdeggiante e bacche rosse di pungitopi e agrifogli si vive un’atmosfera natalizia serena e rilassante: non si avverte nemmeno l’ansiosa attesa della primavera. Il bosco non ha un fine stagione, e neppure un fine anno se per questo, nessun ciclo si conclude simultaneamente e pertanto l’attività è continua: sempre viva è la vita del bosco. L’unica cosa morta, ferma, passata, è la lugubre sagoma del castello di Partistagno, avvolta anch’essa dal mantello grigio della nebbia, perciò ancora più cupa e misteriosa. Il castello dal quale, secondo una leggenda, è precipitata una culla d’oro con tanto di neonato. Una delle tante storie di sventure e maledizioni che contraddistinguono il nostro stare sul pianeta. Non voglio neanche minimamente mescolare quella leggenda con le bacche dorate dell’agrifoglio che vive ai piedi del maniero: pianta sublime. Sarebbe bello e facile dire che da quella disgraziata vicenda sbocciano, spuntano, emergono cose naturali che ne ricordano l’evento. Ma non è così, per fortuna. La natura non ha nulla da spartire con il nostro sventurato e spesso disastroso passaggio. È immune alle contaminazioni che tentiamo di operare per sentirla partecipe dei nostri alti e bassi esistenziali. Non matrigna, non crudele, o gentile. Indifferente, certo, ma è giusto che sia così. Non v’è traccia delle umane sventure nelle macchie gialle della salamandra, nelle bacche rosse degli agrifogli, nelle candide corolle dei bucaneve che a breve si schiuderanno. La natura va, prosegue il suo cammino, non si attorciglia e non si avviluppa ai ricordi, non si aggrappa alla speranza. E l’edera, ahimè, non c’entra nulla! Anche il nostro trafficato tempo di plastica e cemento, che ci attende per gli ultimi affaccendati incroci prenatalizi, così come quello del castello, sta per concludere il suo ciclo, a giudicare dalla poca benzina rimasta nel serbatoio… A dire il vero è un ciclo poco circolare, più che altro è una traiettoria, breve, tangente alla logica della vita su questa biglia blu, nuovamente pronta a ripartire verso il distante afelio.