BEIVARS – 19 NOVEMBRE 2020
Lidrîs di morârs
Le file degli ultimi gelsi, asserragliate nel mezzo dei quattro campi relitti di periferia, circondate da signorili villini in mattoni faccia a vista e dall’avanzare di capannoncini di tendenza, dalle vetrate oscurate, resistono ancora! Grossi tronchi cavi, rivestiti da rugose scorze vive, sostengono l’andirivieni di flessuosi rami che intessono sul cielo terso novembrino, ramazzato da leggere folate di bora, avvenenti trame paglierine. Qualche campanile svetta ancora, driblando pali dell’alta, dell’altissima, della super altissima tensione. In passato attorno al campanile si radunavano devoti e servili i tetti del paese. Ora appaiono deflagrati in ogni direzione, catapultati nel mezzo della fertile terra bruna, un tempo più preziosa dell’oro. Fili elettrici prendono tutte le direzioni, caoticamente, a testimoniare l’avida sete di energia della città. Sotto il dedalo di elettrodotti stanno in pace i nostri gelsi, pacati e dalle chiome tondeggianti, oggi più gialli e ammalianti che mai. Tra un mese è Natale e loro, per ultimi, han deciso di mettersi a riposo, regalandoci questa vitale immersione cromoterapica. In filari ordinati affiancano le ultime capezzagne, spaventate come bisce, che fuggono per questo o quel campo friulano, sopravissuto ai riordini. Non vogliono finire asfaltate, senza più pozzanghere, senza patine algali, senza acqua estiva per gli uccellini. Calpesto stradine che hanno sorretto più passi che ruote, ascoltato più voci che rombi, respirato l’aria buona dell’est, non lo smog metropolitano. Sotto i miei passi scivolano le radici dei gelsi, la parte invisibile degli alberi, e vanno oltre il confine della proprietà, a incontrare altre radici, in un intreccio essenziale, efficiente, complesso, che ancora e alimenta queste robuste essenze. Le radici dei gelsi, ahimè sempre più rare, come i segreti cunicoli delle talpe, ancor più rarefatti dei gelsi, vagano sottoterra liberi da costrizioni, sconfinando alla ricerca di cibo e sostanze utili, interrompendosi solo dinnanzi alle fondamenta dei muretti delle recinzioni di ville e capannoni, in avanzata verso i campi di periferia. La speculazione è preceduta dall’abbandono dei campi, dalle varianti urbanistiche, dalla successiva lottizzazione e cementificazione del suolo. Una classica sequela di riti ai quali noi uomini siamo ormai assuefatti, i gelsi e le volpi un po’ meno. Eccoci di fronte ad un campo incolto, abbandonato, in attesa della sua fine, dove per ora è partita la gara senza esclusione di colpi per guadagnarsi il posto migliore da parte della flora selvatica. Si chiama successione vegetale ma è un vero e proprio arrembaggio piratesco. Bella da vedere quanto e più di una metrica sfilza di gelsi, questa entropica rincorsa verso la libertà del luogo, lo sguinzagliare del suo genius loci, mette i brividi tanto è gloriosa, infallibile, armonica come una rapsodia gershwiniana. Vi giungono per prime le scattanti sanguinelle, in lotta con tenaci erbacce che non vogliono cedere il palco, a loro volta assediate dalle chiome crescenti delle robinie, che gettano ombra e scompiglio tra gli strati inferiori. Tutto sembra procedere a caso e nel caos, invece è frutto di regole e reazioni chimiche con un preciso scopo ed una direzione da seguire: quella che porterà alla grande foresta di querce, stadio finale dell’insediamento naturale. Ovviamente da queste parti non ci arriveranno mai, perché i villini borghesi saranno più lesti delle farnie, ma intanto ci godiamo questo selvaggio spettacolo naturale dentro la città. Spettatori consapevoli, assieme ai gelsi, che in metronomica disposizione contemplano il caos di questa umanità senza umanità, frastornata e stonata.