BUIA – 27 GENNAIO 2021

Siepi di rovi

Le numerose specie di rovo, intricate anch’esse da incasellare in un ordine sistematico, si somigliano per portamento, tenacia ed aggressività nei confronti degli spazi luminosi, che colonizzano grazie a qualità peculiari: invasività ineguagliabile, crescita rapida, radicamento veloce e, soprattutto, difese inavvicinabili! E non trascuriamo la disseminazione data dagli uccelli, ghiotti di zuccherine more. Aggirando il fronte minaccioso di queste masse ingarbugliate di lunghi e flessibili fusti spinosi, che portano coriacee foglie dai margini altrettanto pungenti, i mammiferi del bosco penetrano i roveti raggiungendo piccoli spazi, intimi, attorniati dai viluppi informi che li difendono “a spina tratta”. Luoghi inespugnabili nel cuore della boscaglia, dove trascorrono le ore inattive del giorno. Per i piccoli uccelli questi ammassi di liane spinose sono autentici paradisi, dove gatti, volpi, mustelidi e rapaci non potranno osare assalti. Ne sa qualcosa lo scricciolo, il pettirosso, l’averla minore, la capinera, la passera scopaiola: uccelli di rovo, che vedi e non vedi, ma senti, soprattutto in inverno e primavera. Luoghi non certo pittoreschi e all’apparenza “caotici”, dove l’entropia del sistema pare in totale deregulation. Si tratta in vero di fasi di passaggio, ambienti in mutazione, formazioni vegetali tecnicamente dette “successioni”, che succedono ad altre, e che stanno preparando il terreno per quelle successive, magari belle e più ordinate foreste di querce… Luoghi in transizione che stanno vivendo alla grande una nuova vita, comparsa in seguito agli abbandoni, dopo secoli di sfruttamento, e che ci appaiono in un’esuberante fase giovanile. Presto o tardi, se nessuno continua a disturbare o riprenderà a farlo, tutto si sistemerà; alcuni alberi cresceranno, svettando ed ombreggiando il sottobosco. Gli strati inferiori andranno lentamente “ripulendosi” dal viluppo di rovi, sostituendo queste piante eliofile (che amano il sole) con specie di ombra, dette sciafile. E i rovi, sfrattati, dovranno migrare in altre lande aperte, altri luoghi abbandonati, dove ricominciare tutto da capo… Da ragazzo, in uno di questi boschetti collinari dietro casa, dove erano ancora visibili i vecchi terrazzamenti dei prati da sfalcio, trascorrevo i pomeriggi oziosi del dopo scuola o delle vacanze. Stagioni interminabili, di grandi esplorazioni. Un’estate, vagando nella boscaglia e lambendo i roveti marginali, vi avevo trovato il mio personale rifugio, casualmente, senza cercarne uno. Non ne sentivo il bisogno ma tant’è che incontrai inaspettata accoglienza dentro una di queste siepi di rovo.
(Continua…)

Nei boschi un tempo curati e ora trascurati, lungo i loro margini esterni, che si protendono verso piste forestali e schiarite, o nelle boscaglie succedutesi rapidamente ai prati non più falciati, o su antichi terrazzamenti abbandonati, e fin quasi dentro ai paesi, si propagano fitti e invalicabili roveti.

Un ingresso “segreto”, sul lato stretto della cortina vegetale, vicino alla scarpata, mi offrì la possibilità di penetrare il muro di spine. Forse era un rifugio di caprioli. Lo varcavo lentamente, procedendo di lato, sfiorando artigli e punte protese verso le stoffe degli indumenti, pronte a catturare ed ingarbugliare dolorosamente gambe e braccia, o prendermi per i capelli. La gelosa custodia dell’accesso da parte dei rovi era una sorta di combinazione segreta che, una volta nota, superavo senza problemi particolari e rappresentava una garanzia di riservatezza. Solo io potevo raggiungere quello spazio angusto. Io e i caprioli, forse. Il corridoio d’ingresso si allargava di un metro o due, non di più, mantenendosi raccolto e minimo. Il cielo si apriva sopra la matassa dei rovi, alta tre metri e più, di quel tanto che bastava ad accogliere un pezzo di cielo, senza rami di alberi o altri impedimenti. Cielo sempre azzurro, sereno, ma questa è una visione che ho ora di quel soffitto vuoto, pertanto non conta. Ricordo invece che non c’era nulla su cui sedersi ed anche a terra, nonostante vi fossero ancora cespi di “ex erba da fieno”, che ormai crescevano senza l’assillo dello sfalcio, gli stoloni dei rovi pattugliavano la zona, benché non presentassero l’aggressività e le dimensioni dei fusti esterni alla siepe. Penso che in un nido simile, frequentato per un’estate, per brevi istanti (non c’era nulla da fare e non fumavo di nascosto), ho covato passioni che poi mi hanno ritrovato, come pulli imprintati, alla fine della giovinezza, quando dagli studi ingegneristici ho virato per quelli biologici. Era una Natura totale, avvolgente, prorompente, intoccabile, indomita e selvaggia. Mi andava lentamente contaminando, conquistando. Mi capita spessissimo in questi anni di andar per boschi prealpini, lungo stradine, sentieri o tracce che rasentano siepi di rovo. Le guardo con attenzione, per scovarvi qualche passeriforme “imboscato”, cercare vecchi nidi, osservare tracce, ma soprattutto per individuare ingressi, pertugi, e poter penetrare ancora una volta quel mondo segreto. Ma non ne trovo più, non ne ho più trovate. Non si ripresentano certe occasioni. Questione di occhi? Di dimensioni corporee? Lo sguardo furtivo del ragazzo a volte rientra in noi, ma solo in prestito, e solo per rimpiangere certe estati lontane. Il ragazzo è rimasto in distanza, autonomo come allora. Così mi accontento a osservare veloci movimenti di code, saltelli di piccole ombre tra le trame di fusti e spine, a vedere la pista di un mustelide che si infila sotto il roveto, oppure ad ascoltare il primo canto del merlo, come questa sera, sul tramonto di fine gennaio. Il primo canto d’amore. Riparte un’altra primavera, un nuovo giro di vite che ci accompagneranno, solari e vivaci, a lungo nella bella stagione ma ci allontaneranno, senza volerlo, da quelle siepi di rovo che per caso e quasi per incanto, in un tempo ormai remoto ci hanno accolto senza spinarci.